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Diciamocelo chiaramente…

Genitori e Familiari insieme contro i Disturbi del Comportamento Alimentare

Diciamocelo chiaramente!

Tutti abbiamo pensato che i disturbi del comportamento alimentare non potevano assolutamente riguardare noi e la nostra famiglia. L’anoressia, la bulimia per me erano malattie legate ad una visione distorta che certe ragazze hanno dell’ideale di bellezza e di perfezione fisica che la società moderna ci propina ogni giorno. Si, forse avevo anche più che un sospetto che la colpa della malattia fosse da ricercare in qualcuno, puntavo il dito sui genitori delle ragazze anoressiche. E poi? E poi l’anoressia è entrata a casa mia. Io me ne sono accorta improvvisamente, da un giorno all’altro, ma era entrata piano piano, si insinuava e scavava solchi difficili da ricoprire.

Ho dovuto cercare di capire meglio come mai proprio a me, a noi. Certo mi sono chiesta mille volte cosa avevo sbagliato, chi aveva sbagliato, perché mia figlia non riuscisse più a trovare qualcosa di  bello nella vita malgrado gli amici e l’amore di chi la circonda.

Ho dovuto imparare che non ci sono risposte. I Disturbi del Comportamento Alimentare non sono che la punta dell’iceberg di un malessere più profondo che risiede nella psiche e, come tutte le cose che hanno a che fare con la psiche, non ha una spiegazione che soddisfa le regole della logica.

Ho dovuto imparare che non ero la sola a non saperne nulla di anoressia. Tutti gli specialisti e i dottoroni a cui ci siamo rivolti si sono detti in grado di risolvere il problema, un nutrizionista  addirittura ci ha detto che con lui non ci sarebbe neanche stato bisogno del supporto di uno psicologo. Mah! Io so solo che è stato tutto tempo perso. Ho dovuto imparare che la malattia va affrontata rivolgendosi a centri specializzati nella cura dei DCA. L’equipe terapeutica affronta il problema a 360°, nei suoi diversi aspetti: i DCA sono infatti disturbi psichiatrici con una alta frequenza di complicanze mediche, non è solo questione di dieta o di peso! Come non è solo questione psichiatrica o psicologica. E’altrettanto importante recuperare la percezione di sé, le relazioni con gli altri e il benessere psicofisico.

Ho dovuto scontrarmi con la burocrazia. I centri specializzati per la cura dei dca sono costosi, spesso privati, con poca diffusione sul territorio nazionale e con bassa capacità di posti letto. Quindi, a meno che tu non sia erede di Onassis, devi chiedere alle ASL del tuo territorio di approvare la spesa per la cura. Dopo vari rimpalli amministrativi (non è questo l’ufficio competente, non devo mettere io questa firma, etc.) e mesi di attesa arriva l’attesa autorizzazione. Possiamo dirci anche fortunati, perché abbiamo avuto l’autorizzazione. So di casi in cui questa autorizzazione non arriva mai. Il problema e diffuso da nord a sud su tutto il territorio nazionale. Ma la malattia non aspetta!

Ho dovuto imparare che c’è tanta gente che ha bisogno delle cure di un centro specializzato, le liste d’attesa sono lunghe e i posti disponibili sono pochi. L’impressione che si ha è che la malattia sia sottovalutata sia dal punto di vista medico che da quello burocratico e legislativo. Le cure dovrebbero essere tempestive e uguali per tutti ma così non è. Le liste d’attesa dimostrano che c’è un problema. Ma la malattia non aspetta!

Ho dovuto imparare che i DCA non sono solo malattie legate all’universo femminile, ma che sono abbastanza diffuse anche fra gli uomini, con le stesse dinamiche delle donne, forse addirittura più sottovalutati a causa degli stereotipi culturali.

Ho dovuto imparare che, una volta trovato il percorso terapeutico giusto, occorre mettersi in gioco tutti. Tutte le persone che hanno a cuore qualcuno che soffre di DCA devono mettersi in discussione e partecipare attivamente al percorso, anche scavando dentro se stessi, per capire le criticità del proprio atteggiamento, delle proprie convinzioni, delle proprie rigidità.

Ho dovuto capire che quando qualcuno si ammala di DCA si ammala tutta la famiglia. Il rifiuto per il cibo, che è l’elemento che raduna la famiglia attorno ad una tavola, determina la rottura delle relazioni familiari. Quel momento che dovrebbe essere di convivialità e di confronto, spesso l’unico momento di incontro di tutti i componenti della famiglia, diventa un momento di angoscia sia per chi sta male che per gli altri; non si sa come comportarsi, non si sa se fare finta di niente o se è meglio sottolineare i problemi. Sicuramente ne risente tutta la famiglia e in quei momenti non si può fare niente perché non sia così.

Ho dovuto imparare che non ci sono parole giuste o sbagliate, né atteggiamenti giusti o sbagliati. Ho dovuto imparare che le parole hanno un peso, ma che se le spieghiamo a noi stessi e agli altri forse si alleggeriscono.

Ho dovuto imparare che fino a quando le paure, le angosce, le insoddisfazioni avrebbero continuato a condizionare il modo di pensare di mia figlia non ci sarebbe stata guarigione. Fino a quando per lei sarebbe stato più importante quello che gli altri pensano che lei sia piuttosto che quello che lei è non ci sarebbe stata guarigione. Fino a quando non si sarebbe rotto quel muro di silenzi e incomprensioni non ci sarebbe stata guarigione. Fino a quando non avesse riscoperto il valore dell’amore da dare e da ricevere non ci sarebbe stata guarigione.

Ho dovuto imparare che i DCA in fondo sono delle richieste d’aiuto, d’attenzione, e che se si affrontano insieme si possono combattere e sconfiggere. Mai avrei detto che delle persone, a me completamente estranee fino a ieri, oggi avrebbero significato tanto per me. Non parlo solo dei terapeuti e di tutto il personale che ha avuto in cura mia figlia, parlo soprattutto degli altri genitori con i quali ci siamo confrontati, arrabbiati insieme, pianto, riso, lottato.

Ho dovuto imparare il valore della solidarietà e della condivisione.

Ho dovuto imparare che non devo dare tutto per scontato. Pensavo che non fosse necessario dire o dimostrare agli altri quanto siamo importanti per te, tanto già lo sanno. Non è così. Ho capito che il contatto fisico forse può comunicare come mille parole ma non basta, non può sostituirle. Ho dovuto imparare a confrontarmi anche attraverso le parole (anche se questo aspetto devo ancora curarlo un po’).

Ho dovuto capire che avevo un atteggiamento troppo accomodante nei confronti delle difficoltà della mia vita e della vita delle persone a me care. Mi dicevo che rispetto ai VERI problemi i miei o i loro problemi erano più o meno insignificanti. Intanto i loro problemi scavavano voragini nell’anima dei miei cari e adesso è difficile ricucire tutto. Adesso sto cercando di non sottovalutarli, con fatica lo ammetto, ma devo riuscirci.

 

Roberta C.